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Restauri conclusi
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Il paliotto di San Domenico, Museo dell'Opera del Duomo, Orvieto
Il restauro del paliotto in cuoio dorato e dipinto detto “di San Domenico”, giunto a conclusione presso il Laboratorio manufatti in cuoio dell’ISCR, è stato effettuato nell’ambito dei progetti conservativi che l’Istituto da tempo conduce insieme con l’Opera del Duomo di Orvieto e la Soprintendenza dell’Umbria. Lo studio del paliotto, in vista del completamento del suo restauro, è stato inoltre oggetto di una tesi di diploma presso la Scuola di Alta Formazione dell' Istituto, nel corso della quale è stata affrontata una sperimentazione sugli adesivi che ha condotto ad un’utile individuazione di materiali e metodologie per il restauro dei manufatti in cuoio.
Il paliotto (97x214cm), si compone di più pelli cucite tra loro, dorate, impresse a rilievo con matrici lignee e dipinte ad olio con pigmenti e lacche. È caratterizzato da una decorazione con volute di foglie d’acanto e inserti floreali che corre lungo il fregio e le due quinte laterali.
I motivi floreali dello sfondo si ripetono in senso orizzontale, con un ritmo alterno in cui ad un fiore grande segue un fiore piccolo. Il fondo su cui si staglia la decorazione floreale è trattato anch’esso a rilievo, presentando una texture che ricorda la vibrazione luminosa dei parati a broccature d’oro.
Nella parte centrale compare l’immagine, inscritta in un clipeo, di San Domenico di Guzmàn, fondatore dell’omonimo ordine di frati predicatori, rappresentato con la tunica bianca e il mantello nero.
Si ringraziano tutti coloro che hanno partecipato a diverso titolo a questo restauro, in primo luogo Mara Nimmo, che lo ha seguito e diretto nei primi anni, e Lidia Rissotto. Un grazie inoltre a Manuela Andreano, che ha dedicato all'argomento la tesi di diploma, e a Paola Biocca che ha collaborato all'esecuzione delle indagini scientifiche. Infine un ringraziamento particolare a Sara Iafrate, che oltre ad avere condiviso il lavoro di tesi con Manuela Andreano ha partecipato in maniera sostanziale al restauro.
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Il parato in cuoio della Zambra del Misello nel Vittoriale degli Italiani
La progettazione degli arredi in cuoio della Zambra del Misello, o Stanza del Lebbroso, nel Vittoriale degli Italiani, viene commissionata da Gabriele D’Annunzio al pittore veneziano Guido Cadorin nel 1924, assieme alla realizzazione della complessa iconografia delle vetrate e dei rivestimenti lignei delle pareti e del soffitto. La scelta del cuoio per rivestire le pareti della stanza, voluta dallo stesso D’Annunzio, introduce un elemento di arredo ormai desueto nel XX secolo, ma che tra il XVI e gli inizi del XVIII secolo era stato di gran moda e di uso comune nelle dimore gentilizie europee di città e di campagna.
Le evidenti condizioni di accentuato degrado del parato, affetto da estese lacerazioni e da significative alterazioni cromatiche localizzate, hanno indotto la Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” a interpellare, con la richiesta di un progetto conservativo, il Laboratorio manufatti in cuoio dell’ISCR. Tale richiesta ha offerto l’occasione per uno studio interdisciplinare di un parato in cuoio di età contemporanea. Uno dei teli del parato è stato smontato e trasferito presso il Laboratorio, per mettere a punto una metodologia d’intervento che possa servire da filo conduttore nel successivo restauro di tutti gli elementi che lo compongono. In ISCR un team interdisciplinare ha affrontato lo studio del manufatto per identificarne i materiali costitutivi, le tecniche di concia, le modalità di realizzazione e montaggio e le dinamiche del degrado, al fine di una comprensione dello stato di conservazione del manufatto e di una corretta progettazione dell’intervento di restauro.
Si desidera ringraziare Franca Peluchetti della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” per la preziosa collaborazione.
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Calzari pontificali detti con iscrizioni pseudo-cufiche, Museo della Spiritualità, Castel Sant'Elia
Significativa è la presenza, nell’importante raccolta di paramenti ecclesiastici medievali di Castel Sant’Elia (VT), di ben tre paia di calzari cerimoniali medievali, risalenti al XII e XIII secolo, oggetti liturgici dotati di caratteristiche di pregio e rarità, nonché di singolare significato in relazione alla storia dell’abbigliamento liturgico. Fra le tre paia, quello cosiddetto “con iscrizioni pseudo cufiche” rappresenta un caso di studio importante. Così come il paio detto “ con decorazioni ad arabesco”, appartenenti alla medesima collezione, già restaurato presso il Laboratorio manufatti in cuoio dell’ISCR, si reputa che sia stato prodotto in una bottega dell’Italia meridionale, e precisamente siciliana, ad opera di artigiani islamici o comunque sotto la loro influenza diretta.
Affrontare il restauro di questi oggetti singolari ha richiesto la costituzione di un gruppo interdisciplinare di lavoro e di studio. Questo ha permesso di organizzare la ricerca e il restauro secondo i seguenti punti:
- inserimento in un quadro storico di riferimento, i cui dati derivano sia dalla conoscenza della collezione di paramenti sacri di Castel Sant’Elia, sia dal confronto con altre calzature pontificali della medesima epoca, tutt’oggi esistenti;
- individuazione delle indagini diagnostiche da effettuare, sia in funzione della conoscenza della tecnica d’esecuzione, e quindi del riconoscimento dei diversi materiali, sia dello stato di conservazione dell’opera;
- documentazione grafica, in cui vengono organizzate le informazioni relative alla tecnica d’esecuzione, allo stato di conservazione e al restauro;
- progettazione del restauro, con l’individuazione della successione delle operazioni. L’intervento coinvolge infatti restauratori specializzati su materiali diversi che devono operare in momenti diversi;
- intervento conservativo propriamente detto;
- provvedimenti per il mantenimento della forma corretta restituita durante il restauro, per il deposito e per l’esposizione.
Non essendo riconoscibili elementi tecnici che consentano di distinguere la calzatura destra da quella sinistra, il calzare più lacunoso è stato contrassegnato con la lettera “A”, e con la lettera “B” quello in cui ancora è superstite la parte posteriore della tomaia.
Si ringraziano tutti coloro che hanno contribuito a questo restauro, ed in particolare:
- Federica Moretti, per la documentazione grafica e l'apporto dato al restauro;
- Michael Jung, per la ricerca storica.
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Calzari pontificali con arabesco, Museo della Spiritualità, Castel Sant'Elia
Questi sandali pontificali fanno parte del significativo insieme di 29 paramenti liturgici, recentemente restaurati presso l’ISCR, provenienti da Castel S.Elia (VT). Rispetto alle altre due paia di calzari appartenenti al medesimo complesso, ed anche in confronto con sandali pontificali esistenti in diverse collezioni europee, questi appaiono singolarmente ben conservati; di particolare pregio sono inoltre la qualità formale e la ricchezza decorativa. La necessità di restaurare questi oggetti ha offerto al Laboratorio manufatti in cuoio l’occasione per affrontare in modo approfondito le problematiche conservative delle calzature.
La fabbricazione è probabilmente avvenuta in una bottega artigiana del XIII secolo dell’Italia meridionale, e precisamente siciliana, attingendo alla tradizione manifatturiera islamica. Tuttavia non sembrano esservi elementi, allo stato attuale delle conoscenze, che consentano di confermare con certezza tale ipotesi. Sebbene nella letteratura esistente vi siano dei riferimenti alla manifattura delle pelli e del cuoio, essi rimandano quasi esclusivamente alla legatura, arte fiorente per diversi secoli a causa dell’importanza attribuita al libro sacro, il Corano. Si ritiene peraltro in linea generale che le tecniche di decorazione del cuoio si siano sviluppate principalmente nel Vicino Oriente, e che la loro diffusione in Occidente si avvenuta soltanto in un momento successivo.
Il sandalo pontificale costituisce una particolare tipologia di calzatura liturgica, utilizzata durante alcune cerimonie religiose, come la messa pontificale. A queste calzature cerimoniali fu attribuito il nome sandalia probabilmente nel IX o X secolo; esse divennero parte distintiva dell’abbigliamento liturgico del vescovo intorno al X secolo. Ne sono giunti fino a noi diversi esempi databili al XII-XIII secolo, accomunati da una foggia particolare che, secondo alcuni, rappresenterebbe un’evoluzione formale della tipologia di calzatura romana detta campagus. Questa era una scarpa aperta assicurata al piede mediante un sistema di lacci e indossata generalmente dall’aristocrazia o dagli ufficiali dell’esercito; tale tipologia si sarebbe modificata nel tempo divenendo una calzatura alta fino alla caviglia.
Si desidera ringraziare la restauratrice Federica Moretti che, oltre ad aver partecipato in fase di restauro alle operazioni di pulitura, consolidamento e correzione delle deformazioni, ha eseguito la documentazione grafica e molte delle immagini fotografiche che documentano l'intervento.
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